GIOACCHINO MURAT

Gioacchino Murat

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Gioacchino Murat
Murat2.jpg
Re di Napoli
Stemma
In carica 1º agosto 1808 – 3 maggio 1815
Predecessore Giuseppe Bonaparte
Successore Ferdinando I
Granduca di Berg e Clèves
In carica 25 dicembre 1805 – 1º agosto 1808
Predecessore titolo creato
Successore Napoleone Luigi Bonaparte
Nascita Labastide-Fortunière, Francia, 25 marzo 1767
Morte Pizzo, Regno di Napoli, 13 ottobre 1815 (48 anni)
Sepoltura Chiesa di San Giorgio
Casa reale Murat (famiglia)
Padre Pierre Murat-Jordy
Madre Jeanne Loubières
Consorte Carolina Bonaparte
Figli Achille Murat
Letizia
Napoleone Luciano Carlo
Luisa Giulia Carolina

Gioacchino Murat, nato Joachim Murat-Jordy (Labastide-Fortunière, 25 marzo 1767Pizzo, 13 ottobre 1815), è stato un generale francese, re di Napoli e maresciallo dell’Impero con Napoleone Bonaparte.

Era l’ultimo degli undici figli di una coppia di albergatori, Pierre Murat Jordy e la moglie, Jeanne Loubières. Essi gestivano beni del comune e benefici ecclesiastici della priorìa di La Bastide-Fortunière (dal 1763) e del priorato di Anglars (dal 1770). Divenne cognato di Napoleone Bonaparte sposando Carolina Bonaparte, sorella minore dell’imperatore.

Indice

Biografia

Da figlio di albergatore a Re

Murat è un grande esempio della mobilità sociale che caratterizzò il periodo napoleonico (e anche delle conclusioni tragiche di molte folgoranti carriere). Subito destinato alla carriera ecclesiastica, lo si trova fra i seminaristi di Cahors, poi presso i lazzaristi di Tolosa. Si preparava al noviziato sacerdotale, ma era amante della bella vita, contraeva debiti e temendo le ire paterne si arruolò, il 23 febbraio 1787, nei “cacciatori delle Ardenne”, poi nel 12º reggimento dei cacciatori a cavallo, unità di cavalleria che reclutava uomini audaci. Istruito, si distinse presto, ma nel 1789 venne espulso per insubordinazione e tornò nella casa della sua famiglia.

Fece per un po’ di tempo il mestiere paterno poi, arruolatosi nuovamente, fece parte della guardia costituzionale di Luigi XVI. Alla caduta della monarchia entrò nell’esercito rivoluzionario e divenne rapidamente ufficiale.

Nel 1795 era a Parigi a sostenere Napoleone contro l’insurrezione lealista. Lo seguì poi nella campagna d’Italia e in quella d’Egitto, dove fu nominato generale e fu determinante nella vittoria di Abukir contro i turchi. Partecipò attivamente al colpo di Stato del 18 brumaio 1799 e divenne comandante della guardia del Primo console. L’anno seguente, il 20 gennaio, sposò la sorella minore di Napoleone, Carolina Bonaparte, dalla quale ebbe quattro figli, due maschi e due femmine.

Eletto, nel 1800, deputato del suo dipartimento, il Lot, poi nominato comandante della prima divisione militare e governatore di Parigi, al comando di sessantamila uomini, nel 1804 fu nominato maresciallo dell’Impero e due anni dopo “granduca di Clèves e di Berg”, titolo che lasciò al nipote Napoleone Luigi Bonaparte (figlio del cognato Luigi Bonaparte), dopo essere diventato re di Napoli.

Murat soldato

Grande soldato e grande comandante di cavalleria, fu con Napoleone in tutte le campagne, pur non rinunciando alle proprie opinioni, come quando si oppose all’esecuzione del duca di Enghien. Era in effetti un combattente nato, un uomo sprezzante del pericolo, pronto ad attaccare anche quando la situazione era rischiosa e pericolosa: il coraggio non gli fece mai difetto. Sulla lama della sua sciabola aveva fatto incidere: «L’onore e le donne»[1]

Più volte le cariche travolgenti della sua cavalleria avevano risolto a favore dei francesi una situazione critica, come successe nella battaglia di Eylau, e determinante fu per il successo del colpo di Stato bonapartiano il suo contributo il 18 brumaio quando, insieme al Leclerc, comandava le truppe che stazionavano a Saint-Cloud di fronte alla sala ov’era riunito il consiglio dei Cinquecento. Tuttavia non eccelleva nell’arte militare e quando il coraggio e lo sprezzo del pericolo dovevano lasciare il posto al freddo calcolo, alla capacità di valutazione immediata della situazione sul campo di battaglia e alle relative decisioni strategiche, non dimostrava grandi doti: si può dire che in battaglia avesse molto più fegato (e cuore) che testa.

Murat alla battaglia di Abukir

Esprime bene questo aspetto quanto lamentato dal generale Savary a proposito del comportamento avventato di Murat nella battaglia di Heilsberg (10 giugno 1807): «… sarebbe stato meglio che egli [Murat] fosse dotato di meno coraggio e di un po’ più di buon senso!»[2] Altrettanto significativi delle qualità e difetti del maresciallo sono due episodi avvenuti fra la battaglia di Ulma e quella di Austerlitz.

Il 12 novembre 1805 Murat giunse in vista di Vienna, dichiarata dagli austriaci “città aperta“, e stava per attraversare il Danubio nei sobborghi della città utilizzando l’ultimo ponte rimasto agibile, che un contingente di genieri austriaci era quasi pronto a far saltare. Non potendo prendere il ponte d’assalto, nel timore che gli artificieri nemici facessero brillare le mine, Murat e Lannes, accompagnati dal loro intero stato maggiore, si presentarono sulla riva meridionale del Danubio in grande uniforme da parata e cominciarono ad attraversare a piedi il ponte urlando “Armistizio, armistizio” e sfoggiando grandi sorrisi.

Gli ufficiali austriaci che dirigevano le operazioni dei genieri erano interdetti e non osarono far aprire il fuoco sul gruppo di alti ufficiali francesi, apparentemente non più, al momento, belligeranti. Questi attraversarono il ponte e non appena giunti sulla riva settentrionale abbandonarono i sorrisi e, sfoderate le sciabole, si avventarono sugli artificieri più vicini neutralizzandoli.

In quel momento una colonna di granatieri francesi del generale Oudinot, che era rimasta celata nel bosco della riva meridionale, attraversò a passo di carica il ponte e sopraffece facilmente il reparto di genieri austriaci: il ponte era così salvo e le truppe di Murat e Lannes poterono attraversarlo senza pericoli.[3] L’episodio divertì molto Napoleone che “dimenticò” così un precedente, recente svarione del cognato. Poco dopo però, un paio di settimane prima della battaglia di Austerlitz, presso Hollabrunn, mentre l’armata francese stava tentando di accerchiare quella russa di Kutuzov, Murat fu convinto dal generale russo Wintzingerode, venuto a parlamentare, a sottoscrivere, senza averne i poteri, una tregua d’armi che ebbe l’unico risultato di consentire al generale russo Bagration di sganciarsi dalla morsa in cui era stato costretto per coprire la ritirata del collega Kutuzov.

Murat a Napoli, François Gérard, 1812

Ecco che cosa gli scrisse l’infuriato Napoleone quando seppe della tregua che l’incauto cognato aveva sottoscritto con l’astuto Wintzingerode: «Il tuo operato è veramente inqualificabile, e non ho parole per esprimere appieno i miei sentimenti! Tu sei solo un comandante della mia avanguardia e non hai diritto di concludere un armistizio senza un mio preciso ordine in tal senso. Hai buttato all’aria tutti i vantaggi di una intera campagna. Rompi immediatamente la tregua! Attacca il nemico! Marcia! Distruggi l’esercito russo! Gli austriaci si sono lasciati trarre in inganno al ponte di Vienna ma tu ora ti sei lasciato gabbare da un aiutante di campo dello zar!».[4] Inutile dire che Murat non se lo fece ripetere, ma ormai il grosso delle truppe di Bagration si era tratto in salvo.

Murat a Napoli

Nel 1808 Napoleone lo nominò re di Napoli, dopo che il trono sottratto ai Borbone si era reso vacante per la nomina di Giuseppe Bonaparte a re di Spagna. A Napoli il nuovo re, ormai noto come “Gioacchino Napoleone”, fu ben accolto dalla popolazione, che ne apprezzava la bella presenza, il carattere sanguigno, il coraggio fisico, il gusto dello spettacolo e alcuni tentativi di porre riparo alla sua miseria, ma venne invece detestato dal clero.[5]

Murat in visita al Real Albergo dei Poveri

Dopo una fulminea spedizione militare che gli consentì di cacciare gli Inglesi dall’isola di Capri, durante il suo breve regno, Murat fondò, con decreto del 18 novembre 1808, il Corpo degli ingegneri di Ponti e Strade (all’origine della facoltà di Ingegneria a Napoli, la prima in Italia) e la cattedra di agraria nella medesima università con decreto del 10 dicembre 1809, ma condannò alla chiusura, con decreto del 29 novembre 1811, l’antica Scuola medica salernitana. Inoltre avviò opere pubbliche di rilievo non solo a Napoli (il ponte della Sanità, via Posillipo, nuovi scavi a Ercolano, il Campo di Marte ecc.), ma anche nel resto del Regno (l’illuminazione pubblica a Reggio di Calabria, il progetto del Borgo Nuovo di Bari, il riattamento del porto di Brindisi, l’istituzione dell’ospedale San Carlo di Potenza ecc.).

Il 1º gennaio 1809, Murat introdusse nel regno il Codice Napoleonico, che, tra le varie riforme, legalizzò, per la prima volta nella penisola, il divorzio, il matrimonio civile e l’adozione, cosa che non venne gradita dal clero, il quale perse la facoltà di gestire le politiche familiari. La nobiltà apprezzò le cariche e la riorganizzazione dell’esercito sul modello francese, che offriva belle possibilità di carriera. I letterati apprezzarono la riapertura dell’Accademia Pontaniana per opera di intellettuali che si riunirono nella residenza di Giustino Fortunato, e l’istituzione della nuova Accademia reale, e i tecnici l’attenzione data agli studi scientifici e industriali.

Tuttavia i più scontenti erano i commercianti, ai quali il blocco imposto ai commerci di Napoli dagli inglesi rovinava gli affari (blocco contro il quale lo stesso Murat tollerava e favoriva il contrabbando, il che costituiva un’ulteriore ragione per accordargli il favore popolare). Molto efficace, anche se attuata con metodi di sconvolgente crudeltà, fu la repressione del brigantaggio affidata dapprima al generale Andrea Massena e poi al generale Charles Antoine Manhès.

Nel 1810 per tre mesi Murat governò il regno dalle alture di Piale (attualmente frazione di Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria). Egli, muovendosi da Napoli per la conquista della Sicilia (dove si era rifugiato il re Ferdinando I sotto la protezione degli inglesi, un esercito dei quali era accampato presso Punta Faro a Messina), giunse a Scilla il 3 giugno 1810 e vi restò sino al 5 luglio, quando fu completato il grande accampamento calabrese di Piale.

Carolina Bonaparte a Napoli

Nel breve periodo di permanenza, Murat fece costruire i tre forti di Torre Cavallo, Altafiumara e Piale, quest’ultimo con torre telegrafica (telegrafo di Chappe). Il 26 settembre dello stesso anno, constatando impresa difficile la conquista della Sicilia anche per il sostegno poco convinto di Napoleone, Murat dismise l’accampamento di Piale e ripartì per la capitale. Non va infine sottovalutato il ruolo avuto nel governo del periodo murattiano dalla moglie Carolina, donna intelligente ancorché molto ambiziosa.

Ultime battaglie con Napoleone

Il suo nuovo ruolo di re non gli impedì di partecipare, nella Grande Armée, alla campagna di Russia del 1812, al comando della Cavalleria napoleonica e di un contingente di soldati del regno di Napoli: il suo comportamento in battaglia fu, come in passato, eccellente. La sua carica nella battaglia della Moscova decise le sorti della medesima a favore dell’armata napoleonica. Fu grazie alla sua impetuosità che Murat, incaricato di guidare l’avanguardia dell’esercito napoleonico, con la sua colonna serrata di cavalleria invase Mosca e giunse al Cremlino.[6]

Così fu anche durante la ritirata e il 5 dicembre 1812 Napoleone, partendo per rientrare a Parigi, gli affidò il comando di ciò che rimaneva della Grande Armée.[7] Tuttavia Murat, giunto a Poznań, lasciò a sua volta il comando dell’armata francese a Eugenio di Beauharnais il 16 gennaio 1813 e rientrò in tutta fretta a Napoli. Risalgono a questo periodo i primi negoziati con gli austriaci, influenzati dai consigli della regina Carolina. Tornò comunque a fianco di Napoleone in tempo per combattere a Dresda e a Lipsia, dopo di che lasciò l’armata.

Il tradimento

Giunto a Milano l’8 novembre, Murat fece sapere all’ambasciatore austriaco di essere disposto a lasciare il campo napoleonico e due mesi dopo (gennaio 1814) veniva firmato un trattato di alleanza fra Austria e Regno di Napoli. La notizia, inviatagli da Eugenio di Beauharnais, giunse a Napoleone mentre era impegnato nella difesa del suolo francese, la sera del 6 febbraio e così reagì:

« …non può essere! Murat, al quale io ho dato mia sorella! Murat, al quale io ho dato un trono! Eugenio deve essersi sbagliato. È impossibile che Murat si sia dichiarato contro di me. »
(Napoleone Bonaparte.[8])

Murat, di fronte alla scelta di perdere quel Regno che aveva faticosamente costruito e rimesso finanziariamente in piedi dopo il breve regno di Giuseppe Bonaparte, da poco avveduto diplomatico qual era scelse il tradimento. Del resto i suoi rapporti con lo stesso Napoleone erano ormai da tempo deteriorati tanto che l’illustre cognato, dimenticando spesso i legami di parentela che li legavano, lo considerò sempre e comunque un “vassallo”.[9] Nel trattato l’Austria garantiva al Murat i suoi stati (inclusa la Sicilia),[10] ponendo così un’ipoteca sulle decisioni del congresso di Vienna, che in un primo tempo non volle privarlo del Regno di Napoli, appoggiata in questo anche dall’Inghilterra, che aveva riconosciuto ufficialmente il trattato di gennaio.[11]

Nuovo cambio di fronte e caduta

La fucilazione di Gioacchino Murat

Il 1º marzo 1815 Napoleone sbarcava vicino Cannes, dopo essere fuggito dall’isola d’Elba, e il 5 marzo Murat scrisse alle corti di Vienna e di Londra, che qualunque fossero state le sorti di Napoleone dopo il rientro in Francia dall’Elba, egli sarebbe rimasto fedele all’alleanza con i due stati,[12] così come gli chiese lo stesso cognato scrivendogli che «il passato fra loro due non esisteva più» e perdonandolo della sua condotta dell’anno precedente, altresì gli raccomandava soprattutto di mantenersi in accordo con gli austriaci e di limitarsi a contenerli se avessero marciato contro la Francia.[13] Ma già il 19 dello stesso mese, temendo le intenzioni di restaurazione borbonica sui territori del suo regno, egli invadeva lo Stato Pontificio con un esercito di 35.000 uomini.[14] Murat proseguì ancora avanzando verso nord, entrò con il suo esercito nelle Legazioni, presidiate dall’esercito austriaco che, dopo alcuni tentativi di resistenza, si ritirò, lasciando a Murat anche la città di Bologna, dove entrava il 2 aprile e l’8 aprile faceva presentare ai suoi plenipotenziari a Vienna una nota nella quale, pur protestando contro l’atteggiamento austriaco, ribadiva la sua volontà di rispettare gli accordi del gennaio 1814.[14] La risposta della diplomazia austriaca fu rapida: il 10 dello stesso mese il Ministro austriaco Metternich presentava ai plenipotenziari di Murat la dichiarazione di guerra e il 28 aprile l’Austria firmava un trattato di alleanza con Ferdinando I delle Due Sicilie[15] e la sovranità di quest’ultimo sul Regno di Napoli e di Sicilia venne successivamente ratificata dal Congresso di Vienna.

Murat venne sconfitto dagli austriaci, prima a Occhiobello, poi, dopo una ritirata attraverso Faenza e Forlì, occupate da Adam Albert von Neipperg, a Tolentino (2 maggio 1815); il successivo trattato di Casalanza (20 maggio 1815), firmato presso Capua per conto dello stesso Murat da parte di Pietro Colletta e Michele Carrascosa, sancì definitivamente la sua caduta e il ritorno del Borbone sul trono.

Statua di Murat all’ingresso del Palazzo Reale di Napoli.

Intanto Murat, dopo la disfatta di Tolentino e dopo aver emesso il 12 maggio il famoso proclama, falsamente datato 30 marzo 1815[16] e dedicato agli italiani, che chiamò alla rivolta contro i nuovi padroni, presentandosi come alfiere della loro indipendenza, commise uno dei suoi ultimi errori. Aveva l’intenzione di portarsi a Gaeta per difendere il suo regno ormai perso, ma i suoi cortigiani gli imposero la partenza per la Francia per andare a combattere con Napoleone. Fu convenuto che la regina sarebbe rimasta a Napoli per trattare con gli inglesi e il 19 maggio alle 8 di sera lasciò la sua corte e la sua famiglia:[17] non li avrebbe mai più rivisti. Nella mattinata del 20 maggio s’imbarcò per Ischia e riuscì a sbarcare a Cannes il 25 maggio. Qui errò a lungo per la Provenza, nella speranza che l’illustre cognato, ripreso il potere dopo la fuga dall’isola d’Elba, lo richiamasse nell’armata. Ma il Bonaparte non solo non lo richiamò, ma gli impose, tramite un inviato del ministro degli esteri Caulaincourt, di tenersi lontano da Parigi e di soggiornare tra Grenoble e Sisteron.[18] Il non volere Murat al suo fianco fu un errore rimpianto dallo stesso Napoleone nelle sue memorie: in Belgio «pure ci avrebbe forse potuto arrecare la vittoria: che abbisognava in certi istanti della giornata di Waterloo? Di rompere tre, o quattro quadrati d’inglesi: ora Murat era mirabile per simile bisogno; era precisamente l’uomo della cosa; giammai, alla testa della cavalleria, ne fu veduto uno più determinato, più bravo, più coraggioso di lui.»[19] Venuto a conoscenza della disfatta napoleonica a Waterloo, dove l’imperatore con 120.000 uomini non riuscì a difendere il suo impero[20], e avendo Murat una taglia sulla testa di quarantottomila franchi, messa a disposizione dal marchese di Rivière[21], un uomo che Murat stesso aveva salvato dal patibolo, il re di Napoli si rifugiò rocambolescamente in Corsica, ove giunse il 25 agosto 1815 e dove fu presto circondato da centinaia di suoi partigiani. Aspettando fin troppo a lungo i passaporti provenienti dall’Austria per poter raggiungere la moglie Carolina a Trieste e avendo false notizie sul malcontento dei napoletani, fu convinto a organizzare una spedizione per riprendersi il regno di Napoli. La spedizione, messa in piedi frettolosamente e forte di circa 250 uomini, partì da Ajaccio il 28 settembre 1815. Murat voleva dapprima sbarcare nei dintorni di Salerno ma, dirottato da una tempesta in Calabria e tradito dal capo battaglione Courrand[22], sbarcò l’8 ottobre nel porticciolo di Pizzo.

Il Castello Aragonese di Pizzo Calabro, luogo di prigionia e fucilazione di Gioacchino Murat.

Intercettato dalla Gendarmeria Borbonica al comando del Capitano Trentacapilli, fu da questi arrestato e fatto rinchiudere nelle carceri del locale castello. Informato della cattura dell’ex sovrano, il Generale Vito Nunziante (quale Governatore militare delle Calabrie) si precipitò incredulo da Monteleone, dove si trovava, a sincerarsi dell’identità del prigioniero. Ferdinando IV, da Napoli, nominò una Commissione Militare competente a giudicare Gioacchino, composta da sette giudici e presieduta dal fedelissimo Vito Nunziante, al quale il re aveva ordinato di applicare la sentenza di morte in base al Codice Penale promulgato dallo stesso Gioacchino Murat, che prevedeva la massima pena per chi si fosse reso autore di atti rivoluzionari,[23] e di concedere al condannato soltanto una mezz’ora di tempo per ricevere i conforti religiosi.

Copia originale della condanna a morte di Gioacchino Murat conservata presso l’Archivio Storico di Napoli.

Nell’ascoltare la condanna capitale Murat non si scompose. Chiese di poter scrivere in francese l’ultima lettera alla moglie e ai figli (i quali, postisi sotto protezione della bandiera inglese, furono poi trasferiti dagli austriaci[24] a Trieste), che consegnò a Nunziante in una busta con dentro alcune ciocche dei suoi capelli. Volle confessarsi e comunicarsi, prima di affrontare il plotone d’esecuzione che l’attendeva, e venne fucilato a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815. Di fronte al plotone d’esecuzione si comportò con grande fermezza, rifiutando di farsi bendare. Pare che le sue ultime parole siano state:

(FR)« Sauvez ma face — visez mon cœur — feu!» » (IT)« Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco! »
(Gioacchino Murat)

Charles Gallois, quasi come un cronista dell’epoca, narra: «I soldati sono commossi, due colpi partono senza sfiorarlo. “Nessuna grazia! Ricominciamo! Fuoco!” Questa volta dieci colpi detonarono insieme; 6 palle lo hanno colpito. Si mantenne ritto un istante. Poi piomba al suolo fulminato.»[25]

Lapide che ricorda il luogo di sepoltura di Gioacchino Murat nella Chiesa Matrice di San Giorgio a Pizzo Calabro.

Dopo essersi sbarazzato di un così pericoloso rivale, Ferdinando di Borbone insignì Pizzo del titolo di “fedelissima” e concesse al generale Nunziante il feudo e il titolo di Marchese di San Ferdinando di Rosarno.[26]

In seguito, circolarono voci che ritenevano Murat vittima di un complotto architettato da Giustino Fortunato e Pietro Colletta, i quali lo avrebbero attirato in Calabria facendogli credere di essere ricevuto ed acclamato dal regno, ma la vicenda si rivelò infondata.[27] Otto giorni dopo la fucilazione il generale Nunziante fu nominato marchese mentre il tenente che eseguì la fucilazione diventò comandante. Sull’epilogo della vita di Murat suo cognato Napoleone espresse, nelle proprie memorie, un giudizio lapidario:

« Murat ha tentato di riconquistare con duecento uomini quel territorio che non era riuscito a tenere quando ne aveva a disposizione ottantamila. »
(Napoleone Bonaparte[28])

La Chiesa Matrice di San Giorgio a Pizzo Calabro, luogo di sepoltura di Gioacchino Murat.

Murat è oggi giorno ricordato con una lapide presente nel Cimitero del Père Lachaise, a Parigi, anche se si afferma che non sia effettivamente sepolto lì, ma che il suo corpo sia andato perso o distrutto dopo la sua esecuzione. Altri dicono che venne inumato in una chiesa di Pizzo Calabro, rendendo la rimozione del suo corpo possibile in seguito. In verità il suo corpo venne sepolto nella Chiesa di San Giorgio, in una fossa comune. Una lapide sul pavimento al centro della navata ne ricorda la sepoltura in questo tempio.[29]

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