Pubblicato il 16 ott 2016
Dall’otto ottobre Gioacchino Murat è recluso nelle prigioni del Castello Aragonese, che da qui in avanti prenderà il nome di Castello Murat. Ferdinando di Borbone, in un vero e proprio “Consiglio di Guerra” la mattina del 10 ottobre 1815, decide lo svolgimento per Murat di un processo sommario, da concludersi con la fucilazione di “quel soldato di bassi natali”. All’invito di presentarsi davanti alla commissione militare, Murat risponde: “ Dite a chi vi manda che Murat ha fatto leggi e fa la legge e che non riconosco questo tribunale. Se mi vuole trattare da re, bisogna, per giudicarmi, un tribunale di Re; se mi si vuole trattare da Maresciallo di Francia, il giudizio deve essere pronunziato da una commissione di Marescialli; che infine, se mi si vuole trattare da Generale, ciò che meno potete fare, è riunire un giurì di Generali”. La “Commissione Militare” stabilisce la condanna di Murat che, quale pubblico nemico, è condannato a morte all’unanimità mediante fucilazione. La sentenza viene udita dal prigioniero con freddezza e disdegno. Concessagli mezz’ora di tempo, scrive una commovente lettera alla moglie e ai suoi diletti figli. Poi viene confessato ed assolto da Tommaso Antonio Masdea, arciprete della chiesa di San Giorgio Martire. Murat, in alta uniforme, viene condotto nel cortile interno del castello, a pochi metri dalla sua cella. Comanda lui stesso il plotone d’esecuzione, composto da 12 soldati schierati su due file. Dopo aver rifiutato la benda agli occhi, si scopre il petto e, rivolto ai soldati che gli stanno a pochissimi metri, alza la mano sinistra e ordina: “Salvate il viso, mirate al cuore. Fuoco!”. Colpito, Gioacchino Murat muore il 13 ottobre 1815.

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