Pizzo di Calabria 25 Aprile 1899

Il mio telegramma di iersera vi ha detto che, essendo le ricerche riuscite infruttuose, i parenti di re Gioacchino avevano deciso di sospenderle. Cominciate ad un’ora dopo il mezzogiorno, in mezzo a una grande commozione, le fosse vennero richiuse alle 6 e mezzo, dopo una commovente benedizione data dal parroco agli ossami ammucchiati in quei sotterranei, i quali non formano separate sepolture, come si credeva, ma una sola sepoltura con tre bocche, suggellate allo stesso modo, con spranghette di piombo. Tolta la lapide alla prima fossa, quella che si credeva dovesse contenere i resti di Murat, ed eseguite le necessarie disinfezioni, scesero giù gli operai, per le prime indagini, ma con grande meraviglia, fu constatato che la sepoltura era piena di ossa, e solo si vedeva aderente a un muro una piccola cassa bianca, forse la ultima collocata, che non poteva essere quella di re Gioacchino. Toccata, andò in frantumi, e non vi si rinvenne che un resto di calzatura, di donna. Ricercando meglio, e riunendo con religiosa pietà quelle ossa, furono scoperte altre casse, ma quasi tutte rese fradicie dal tempo, e contenenti resti umani, che non era possibile identificare. Scesero giù nella tomba il conte Giulio Rasponi, il marchese Gagliardi, il conte Ettore Capialbi frugarono in ogni parte, e non sapevano che non tre, ma una era la fossa contrariamente a quanto avevano lasciato scritto il Condoleo e l’Alcalà, e contrariamente alla più diffusa versione locale. Purtroppo in quella fossa come nelle altre sepolture comuni, erano stati gittati i cadaveri dei colerosi del 1836, quasi tutti senza cassa, avvolti in lenzuoli, dei quali furono rinvenuti déi frammenti. Bisognava dunque rimuovere quegli ossami, trovare il fondo della sepoltura, per vedere se mai esistesse qualche resto dello scheletro del Re e i bottoni dell’abito, e il metallo degli speroni.

E si lavorò fra mille difficoltà, ma a misura che si procedeva nelle ricerche, e apparivano altre casse, si acquistava più forte la convinzione della impossibilità di venire, allo scoprimento desiderato, , perché le casse o erario sfondate, o andavono in polvere al minimo contatto, o non contenevano nulla, o nulla che fosse accertabile. Si constatò meglio l’altra circostanza accennata, che cioè quella non era una fossa separata dalle altre, ma che il di mezzo della chiesa formava tutta una sepoltura, con tre bocche, e alcuni arconi di sostegno. Furono aperte le tre bocche, per dare maggior aria e maggior luce a tutto il sotterraneo.

Può essere, avvenuto anche, che nella, fossa terza, dove fu sepolto Murat, fossero, per ingombro della tomba laterale, buttati, alla rinfusa, cadaveri, o vecchi ossami. Il colera fece strage a Pizzo, e i morti riempirono tutta la fossa comune della chiesa di S. Giorgio martire, ch’è la chiesa matrice di cui Gioacchino aveva fatto restaurare, pochi anni prima, il pavimento e i sotterranei. La chiesa è ampia, e fu sede di una collegiata ricca, con canonici e partecipanti secondo mi assicura il parroco, il quale assisté con un altro prete alla cerimonia. Vi assistettero pure il sindaco, gli assessori e le altre autorità, il sotto prefetto di Monteleone, venuto appositamente, d’ordine del prefetto, l’ufficiale Sanitario, un ingegnere e tutti di casa Gagliardi, uomini e signore, nonchè uno dei fratelli Alcalà, figliuolo di Francesco, il quale era stato umano e cortese con Gioacchino e contribuì a salvarlo. Dei parenti assisteva, oltre alla contessa Letizia Rasponi e al nipote Giulio, l’altro figliuolo di Paolina Pepoli, sorella superstite del marchese Gioacchino, e però nipote, in egual grado, della contessa Letizia.

Fu constatata dunque la impossibilità di rinvenire, con assoluta certezza, i resti mortali di Gioacchino Murat, perchè le condizioni della sepoltura non sono più quelle riferite dai documenti e dalla tradizione. Probabilmente i resti dell’infelicissimo Re rimasero soli in quella fossa sino al 1837; d’allora vi furono sovrapposti i cadaveri dei colerosi, circostanza, che rende impossibile, una constatazione storica. Io accennai alla versione, che pur troppo è risultata vera, ma non devo nascondere che la mia delusione fu grande, né mia soltanto, ma di tutta questa gente di Pizzo, la quale si apparecchiava a lavare l’onta del 1815, rendendo onori ai resti mortali di Murat, e promuovendo un monumento all’infelicissimo Re su quella stessa spianata a picco sul mare, dov’egli si fermò, cercando di persuadere i cittadini di Pizzo a unirsi a lui, e andare con lui alla riconquista del Regno. Di là si scopre uno dei più splendidi panorami del mondo, e quasi si domina il vecchio castello aragonese, dove il Re fu prigioniero cinque giorni e dove fu fucilato. Sulla spianata sorgeva il monumento a Ferdinando IV in forme colossali, opera attribuita a Canova, ma eseguita da uno dei suoi discepoli, il De Vivo. Ne esiste il gesso nel museo di Napoli. La statua non sorgeva sulla Marina, come fu detto, ma sì proprio sulla grande piazza. Venne inaugurata, con pompa e relativo banchetto, cinque anni dopo, con l’intervento del generale Vito Nunziante, che ancora comandava la divisione delle Calabrie, dell’Intendente della provincia e del vescovo di Nicastro. Quel banchetto dové essere molto sontuoso, se, come risulta dalle note, furono spesi dieci ducati di solo prezzemolo! Ma tutte le spese furono a carico del Governo.

Dal segretario del Municipio, di ordine dell’ottimo e cortese sindaco di Pizzo, cav. Angelieri, venne redatto in carta da bollo un verbale, che fu sottoscritto dai parenti, dalle autorità, e da parecchi di coloro che assistettero alle ricerche, il verbale rimane in deposito nell’archivio del Comune. I parenti ne portano con sé copie autentiche, per i propri archivi. Ecco il verbale, il quale, benché negativo, non lascia di avere importanza storica:

« L’anno milleottocentonovantanove, il giorno ventiquattro del mese di aprile in Pizzo, nella Chiesa matrice sotto il titolo di S. Giorgio Martire;

« A seguito di parere favorevole del Consiglio sanitario provinciale in data 10 Settembre 1898, che autorizzava l’esumazione dei resti mortali del Re Gioacchino Murat fucilato il 13 ottobre 1815 nel Castello di Pizzo e seppellito in una delle fosse comuni della detta chiesa di S. Giorgio, i parenti contessa Letizia Rasponi, conte Giulio Rasponi e conte Ercole Estense-Mosti, in rappresentanza anche di altri parenti, d’accordo con l’autorità municipale di Pizzo, nelle persone del sindaco cav. Angelieri Pasquale ed assessori Assisi Giorgio, Mele Giuseppe, Ventura Francesco e Marcello Giovanni; e con l’intervento del sottoprefetto di Monteleone cav. Craveri, hanno proceduto alla presenza dei sottoscritti testimoni, ed osservate tutte le prescrizioni sancite dal regolamento mortuario, nonchè le altre dettate dall’ufficiale sanitario, intervenuto a garantire l’igiene pubblica allo scoprimento della lapide, che per comune tradizionale consenso, era indicata come quella nella quale fu raccolto il cadavere del Re Gioacchino Murat. E dopo debitamente areata la sepoltura scoperta, si è disceso nella stessa, e si è verificato l’esistenza di un cumulo straordinario di ossami confusi, in mezzo ai quali appariva qualche cassa portante tutte le apparenze di essere bene conservate.

«Ed isolate, volta per volta le dette casse, si è trovato che il legname era tutto fradicio, e le ossa contenute in alcune non presentavano nessun segno capace di identificare il cadavere del detto Re.

«Secondando altre versioni locali, si estesero con lo stesso metodo tenuto per la prima, le ricerche ad altre sepolture della stessa chiesa, le quali similmente presentarono le medesime difficoltà e segni non dubbi che i cadaveri in essi raccolti appartenevano al tempo dell’epidemia colerosa, che fece così numerose vittime in Pizzo, nel 1837, cioè in epoca di molto posteriore alla fucilazione del ripetuto Re Gioacchino Murat.

«Le operazioni, incominciate all’una p.m. dello stesso giorno, senza presentare assolutamente alcuna speranza che, proseguendosi, sarebbero divenuti più probabili i segni di riconoscimento, ed identificazione dello scheletro ed in conseguenza alle ore sei pomeridiane i parenti intervenuti convennero sull’opportunità di sospendere le operazioni di ricerca,

«Di quanto precede si è da me segretario comunale redatto il presente processo verbale, che, letto e confermato, viene sottoscritto da tutti gli intervenuti:

Firmati:

— contessa Letizia Rasponi

— conte Giulio Rasponi deputato al Parlamento

— Conte Ercole Mosti Estense

— cav. Pasquale Angelieri sindaco di Pizzo

— Assisi Giorgio

— conte Giuscone

— Ventura Francesco, Marcello Giovanni, assessori componenti la Giunta comunale di Pizzo

— marchesa Caterina Gagliardi

— marchesa Ester Gagliardi di Francia

— marchesa di Santa Caterina di Francia

— cav. Craveri, sottoprefetto, del circondano di Monteleone

— Raffaele De Cesare, deputato al Parlamento

— conte Ettore Capialbi, archivista provinciale

— marchese francesco Gagliardi, e cav. Domenico Gagliardi, consiglieri provinciali

— marchese Diego di Francia .

— cav. Pasquale Vacatello, ufficiale sanitario — Gabriele Giancotti, ingegnere provinciale

— F. Paladino, segretatio comunale di Pizzo »,

Scriverò domani della visita al Castello, e di altri episodi della storica giornata, 13 ottobre 1815.

Autore R. De Cesare

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