LA STORIA DEL RE GIOACCHINO NAPOLEONE: 

LO ARRESTO

Se lo sbarco del Re Gioacchino Murat al Pizzo, produsse a ciascuno degli abitanti, una indicibile sorpresa. Una orribile costernazione surse nella famiglia di D. Giuseppe Pellegrino. E questa per motivi, che or ora narreremo (per altro ingiusti, e mal fondati relativamente al Re Murat ). Se dunque il di Lui figlio D. Giorgio, operò quanto appresso diremo: non fu perchè prediligeva la Dinastia Borbonica, né perchè odiava sentimentalmente il Re Murat, ma tutto altro ne fu la cagione.

Intanto un cenno sulla di Lui biografia.

« Egli era un giovine nascente agli affari del mondo, e perciò nulla introdotto nei maneggi Politici. L’ unica sua cura,  era stata sempre di accaudire alla professione di Farmacista, che per apprenderla, si era trattenuto più anni in Napoli.

« Ripatriatosi, di altro qui non si occupava, che allo esercizio di Essa. Per cui, non ha mai avuto alcun motivo di concepire amore pel Borbone, né odio pel Re Murat ; ma la vera cagione fu la seguente: Mentre noi assicuriamo riferire perfettamente quello, che lo stesso D. Giorgio nella nostr’amichevole confidenza più volte ci narrò. Ed eccone i fatti : « Siccome nel Governo di Re Gioacchino Murat non pochi suoi Generali, vennero a comandare le Armi in questa Provincia. Fra tanti ve ne fu uno (che noi per educazione ne taciamo il nome) il  quale lungi di accaudire con onore, giustizia ed equità, agli svariati incarichi a si alto Ministero affidati; Invece si studiava d’ingrandire la sua fortuna, con mezzi ingiusti, prepotenti, e nulla onorevoli.

Cagionando in tal guisa, grandissimo detrimento a non poche famiglie, con specialità a quelle agiate, e che al negozio introdotte trovavansi. Dando loro ad intendere, che dallo Estero i di Lui corrispondenti gli davano delle commissioni, per lo acquisto di Olei, sale, ed altri «generi, facoltandolo farne l’incetto a prezzi di gran lunga maggiori di quelli correvano in queste nostre piazze. Intanto fingeva di affiggersi, per non poter agire solo solo, attesa la molteplicità   degli   affari, a cui indispensabilmente era chiamato eseguire. Ma ad onta però di tutto «questo, si contentava almeno esserne Socio, attesa la certezza di un significantissimo guadagno.

Con queste lusinghiere vedute, il generale in molte Città di sua Giurisdizione, aveva trovato molti Soci. Fra tanti qui fu scelto D. Giuseppe Pellegrino, padre del Farmacista D. Giorgio.

«Da prima, si è creduto non poco fortunato D. Giuseppe, non solamente, perché faceva parte di una Società, la quale, oltre che veniva rappresentata, e protetta da un personaggio così potente, gli procacciava nel tempo istesso un’amicizia, di cui Pellegrino, andava molto in cerca ;  ma più per le vedute di un positivo Lucro. Ed ecco, perché Pellegrino con tutta solerzia eseguì la compra di un ragguardevole numero di botti d’olio, che subito  ne fece la consegna al Generale.

Adempito a questo primo incarico, andava gonfio, e pettoruto D. Giuseppe, perchè godeva l’amicizia, e protezione del Generale; (veramente in quell’epoca, non erano esse piccole cose possederle, anche alla persona più pacifica) tantoppiù Pellegrino, a motivo della sua politica condotta in raggion di quei tempi. D’altronde, non passava per qualunque ragionevolezza nella mente di Pellegrino, da dover perdere il capitale impiegato. Intanto il Socio principale non trasandava assicurarlo, aver di già fatta la spedizione del genere  all’Estero, e che perciò bisognava attendere l’esito.

Decorso un tempo, in ragion del quale si avrebbe dovuto conoscere il risultato del negozio. Ma intanto, chi aveva il coraggio chiederne conto, mentre il Generale astutamente ne serbava un misterioso silenzio.

Un procedere così inatteso, ingiusto, e nulla onorevole, tenuto dal Generale, fece ben comprendere Pellegrino, esservi infelicemente capitato! Ma che poter fare?

Si trattava con un Generale Francese, munito d’illimitati poteri, e che per essi la vita e la roba dei cittadini, dalla di Lui volontà dipendevano. Per cui giusto, o ingiusto il comando dato, necessità portava di chinare rispettosamente la fronte, ed ubbidire.

Restaurato Ferdinando IV sul Trono di Napoli, il Generale ha dovuto cessare dalle sue attribuzioni, e per conseguenza ritornare in patria; e cosi Pellegrino ha potuto contare su quell’altra proprietà che gli era rimasta. Perché se le armi Francesi avessero continuato a dominare in questo Regno e il Generale nelle sue  attribuzioni. In questo caso tanto Pellegrino che gli altri componenti la società Leonina, avessero tenuta la parte dei timidi agnellini.

Questo è l’infortunio dei Sovrani, allorché infelicemente s’imbattono di conferire cariche a persone immorali, e prepotenti, i quali lungi eseguire onorevolmente gli incarichi al proprio Ministero affidati. Invece abbusando del potere commettono impunemente degli aggravii ai sudditi, procurando così al Principe, de’ personali nemici !

Memore dunque Pellegrino delle avanti narrate perdite prepotentemente sofferte, temèva perciò Egli, che un tal Governo, non si avesse a ripristinare, onde ricadérvi, e compiersi di conseguenza la sua total rovina. Ammetteva con un tal ragionamento che il futuro sarebbe stato per lui simile al  passato.

Persuaso una volta, che così, e non diversamente gli sarebbe accaduto. Fece perciò decidere il figlio di procurare a qualunque costo lo arresto del Re Murat, e se gli avesse riuscito, financo la sua morte.

Dietro si audace e tremendo deliberato, prima cura fu quella di abboccarsi con alcuni suoi intimi parenti, amici, dipendenti, e persone di fiducia. Insinuando loro con quell’ impegno, che uno suole sperimentare, allorché si crede colpito d’imminente ed inaspettata sventura, ed opera per la salvezza. Tanto vero che i suoi incoraggiamenti avvalorati da lusinghiere promesse di future compensazioni produssero nell’ animo di quelli un effetto tale, da farli divenire più impegnati di Lui, all’esecuzione dell’audace e temeraria impresa.

Si trovava qui di passaggio il nostro compaesano D. Gregorio Trentacapilli, reduce dalla Sicilia insignito col grado di capitano di Gendarmeria, il quale era stato destinato a comandare nell’arma in Cosenza. E quantunque decorso il termine, che si avesse dovuto trovare in residenza, pure a tanto non avea potuto adempire, perchè aggravato di numerosa famiglia. E siccome non ancora gli era stato possibile procurare i mezzi, onde poter eseguire con comodo e decenza il viaggio, così suo malgrado gli conveniva abbusare.

Ma chi può mai comprendere, ed indagare negl’imprescrutabili Disegni della Archetipa, mentre del vero solo Sapiente, per aver disposto che trovato qui si fosse Trentacapilli! È quantunque non ha Egli molto operato pel compimento dello arresto del Re Murat. Pure quel tanto fece, non solo, che influì allo incoraggiamento di molti, ma contribuì ancora allo ingrandimento della di lui’ fortuna.

Sovente ammiriamo la Bontà del Signore, compiacersi premiare la sincerità degli uomini, soccorrendo talvolta per ricognite vie coloro, che rischiano la vita per   l’onestà.

Dovendo in talune circostanze secondare, anche contro lor voglia le ingiuste, e spesso nulla onorevoli esigenze di colui, che li comanda. Così e non altrimenti si dovè condurre Trentacapilli ed eccone  i fatti:

Nell’ora che il Re Murat operava in piazza nel modo come avanti abbiamo cennato, Trentacapilli si trovava in casa del Sig. D. Giovambattista Melecrinis (Uomo ricco, e notabile del paese), ad oggetto di poter sollecitare la partenza. In questo mentre giungeva l’incredibile notizia, che il Re Gioacchino Murat, si era qui sbarcato in unione di più individui, i quali stavano in piazza ove in tutti i modi cercavano sovvertire il popolo, per indurlo alla Rivolta contro il Governo, e proclamare Lui Sovrano, e per tale riconoscerlo. Esagerata per altro la notizia, giacché il Re non fece tali pubblicità.

Chi legge la presente storica memoria, può ben considerare, quale sia stata la sorpresa del povero Trentacapilli, padre di sei figlie, nuova così originale, e in quale costernazione lo ha messo!

Cosa risolvere? Restarsi nell’ indifferenza, e lasciare che il Re Murat operasse in piazza senza ingerirsi? Era questo lo stesso di mancare al proprio dovere, e perciò meritare giustamente l’indiscrezione del Suo Sovrano ! E perdere di conseguenza l’Impiego, che dopo dieci anni di penosissima emigrazione in Sicilia, Dio sa come procurato lo avea.

Uscire in piazza per imporgli lo arresto?

Era questo lo stesso di compromettere la vita! Tantoppiù, che dovea Egli agir solo, stante qui non vi era Truppa per adibirla.

Chiamare gente in aiuto? Era inutile financo il pensarlo. Giacché niuno si sarebbe prestato dal perchè non ancora si era conosciuto di che si trattava, e perciò temeva ognuno di fare una dimostrazione qualunque, perchè incerto dell’esito.

Ma intanto l’imponente circostanza, esigeva pronta ed energica risoluzione per cui ad onta, di si timorose, e giuste considerazioni, gli convenne uscire.

Intanto, per dirla, colla propostaci franchezza, ed imparzialità Egli non ha poco tardato ad uscire. E quando ciò fece, avea sicuramente saputo, che il Re Murat, era di già partito. Tanto vero, ch’essendosi finalmente recato in piazza, non lo ha ivi trovato. Finse ciò non pertanto, prendere conto di taluni, i quali, avendo ancor loro saputo la partenza del Re, erano perciò usciti prima di lui, per osservare in che stato erano le cose rimaste.

Gli fu risposto, che il Re, momenti prima del di lui arrivo, una col seguito, eransi incamminati verso Monteleone, salendo per la strada li morti.

A questo rapporto Trentacapilli , affettando coraggio, e premura, cercò di animarli, onde unirsi a lui, per andare a raggiungerlo, ed imporgli lo arresto.

A tale periglioso, ed esigente invito, non solamente che non dettero ascolto, m’alzando ognuno le spalle allontanaronsi.

Intanto giungeva il fratello di Trentacapilli a nome D. Raffaele accompagnato da poche persone sue dipendenti, i quali avendo ancor loro saputa la partenza del Re Murat, uscivano perciò in cerca del Capitano, giusto perchè D. Raffaele temeva che il fratello, non avesse fatto qualche dimostrazione, relativamente al Re, volea giustamente prenderne conto.

Vedendo il Capitano Trentacapilli, venire il fratello in unione di altri, prese un qualche coraggio, giacché non avea  l’ardire, né veramente gli conveniva di avventurarsi solo, per andare a raggiungere il Re Murat, ed imporgli l’arresto.

Ma ciò non pertanto, dopo qualch’esitanza (effetto per altro di non pochi pareri da loro emessi sul proposito) affermanti e discordanti, decisero finalmente andare. Sicuri però di non raggiungerlo. Perché Trentacapilli con certezza matematica calcolava il tempo decorso: che se il Re avesse continuato il camino dal momento che partì, sino a quello della loro andata, tanto si  dovea verificare. E cosi Trentacapilli non solamente, che avrebbe evitato il pericolo, ma giustificava nel tempo istesso  l’onor suo presso il Governo.

Ma il fatto si fu, che il Re giungendo in testa della salita, si fermava nel giardino denominato la Parriera.

Intanto, volendo noi prima di continuare il racconto dei fatti, che seguirono, portar giudizio quali abbino potuto essere i motivi, che indussero al Re Murat, intrattenersi allo anzidetto luogo la parriera.

Forse, perché essendo un tal punto, al termine della bastantemente erta salita, e siccome dalla piazza per arrivare ad un tal sito, si dee camminare da circa un miglio, e perchè lo percorsero con celerità, facile il disagio sofferto imponeva loro un qualche riposo ?

O pure sovenne al Re, che per giungere sino a Monteleone, si dovea arrampicare per altri sei miglia di più ripida e malconcia via. Si sia perciò rammentato del cavallo, offertogli da Devuox al Pizzo. Sperando forse Lui che da un momento allo altro glielo avrebbe fatto tenere, colà dimorava?

Ma intanto il cavallo non compariva, perchè non era più della politica del Capitano Devuox mandarglielo.

Primo, per non compromettersi col Governo. E per secondo colla popolazione, credendolo connivente col Re Murat.

Tutti questi timori, considerazioni, e il trattenimento allo anzidetto giardino la Parriera, si sarebbero evitati quante volte il Re, ne avesse profittato al momento, che gli fu offerto (e sarebbe stata la sua salvezza) perchè col mezzo di esso avrebbe andato a Monteleone, (ove diceva volersi dirigere) prima che il popolo si fosse mosso contro di Lui. E chi sa se il Re avesse andato ad altra Città, cosa ne sarebbe avvenuta.

Almeno non sarebbe succeduto qui lo arresto, e se pure altrove, certamente che non cosi sevizioso. Basta comunque fosse andata la cosa, noi seguitiamo i fatti che verificaronsi.

Nel sbucare   Trentacapilli   dallo   abitato (punto che non dista dal giardino la Parriera, che un tiro di fucile) si avvide che il Re Murat, una col seguito colà s’ intrattenevano. Ei restò come da fulmine colpito! Avrebbe voluto ritornare al Pizzo, ma dovè sicuramente riflettere, e considerare, che un tal procedere, non solamente che lo caratterizzava un vile, ma lo colmava nel tempo istesso di grandissimo disonore, da non potersi discolpare né col proprio Sovrano, né col mondo intero neppure.

Si avvide intanto il Re, che un’Uffiziale seguito da poche persone salivano. Ed eccolo colla solita di Lei intrepidezza correre al ciglione del giardino contiguo alla via, facile per avere così il destro parlare all’ Ufficiale, onde sapere qual’ era l’oggetto che colà si recava, e tentare nel tempo istesso tirarlo a di Lui partito.

Questo era ragionevole, perchè il Re sicuramente giudicava essere l’Uffiziale, quegli che animava il popolo alla rivolta contro Lui — mentre doveva sicuramente osservare che più persone armate ragiravansi a quei dintorni. Giacché la mossa di Trentacapilli, aveva prodotto l’incoraggiamento di molti, i quali altro non aspettavano, che il principio alle cose, per quindi sperimentarne la fine.  

Arrivava intanto Trentacapilli a stento sul luogo, e di già il Re gli era visavi  dicendogli  

«Generale! Seguitemi! Da lei dipende ottener noi tutto!»

In questo mentre Trentacapilli si trovava in uno stato simile a colui, ch’ è presso a sentire la morte (e poco sicuro di poterla evitare). Per cui nell’ambascia di un moriente, si fece rispondere al Re, le seguenti parole:

«La ringrazio della generosa offerta di cui si degna onorarmi. Devo per mio dovere però manifestarle che l’oggetto  pel quale, mi son qui recato è stato solo  quello farle sentire da parte del mio Sovrano di presentarsi in Castello. Assicurandola della immensa soddisfazione del mio Re, per atto si generoso.»

Del racconto di questi fatti, noi non intendiamo assicurare, né garantire, se veramente Trentacapilli, sia stato capace rispondere al Re Murat parole cotanto ardite (se pur non le vogliamo considerare insultanti), mentre noi riferiamo perfettamente quello, che abbiamo appreso dalle persone, che lo accompagnarono. Perchè se ciò fosse stato vero, e quanto si potrebbe dire della intrepidezza dimostrata di Trentacapilli. Tantoppiù che Egli si trovava in mezzo a trenta due persone, e fra queste vi era il Re Murat. Ed ognuno ben comprende, se a costoro conveniva usare riguardi, e misericordia, e specialmente a colui, che non solamente si voleva opporre ai loro impegni, ma pretendeva d’ incarcerarli ancora.

Sappiamo però con certezza, che dal modo come Trentacapilli si atteggiò alla presenza del Re Murat, non poco si dispiacquero le persone del seguito del Re. Tanto vero, che altro non s’intesero che orribili fremiti di furore e d’ira fiera mormorarono. Avrebbero voluto far scempio del Capitano, ed altro non attendevano un minimo cenno del Re, per farlo a brani. E col fatto il Generale Francheschetti  essendosi indignato più degli altri, impugnata avea la pistola per ucciderlo, e lo avrebbe eseguito: ma fortunatamente per Trentacapilli, se ne avvide il Re, e lo impedi dicendogli:

«No Generale! Non merita la morte chi va a fare il suo dovere, e serve con fedeltà il proprio Sovrano.»

Bastarono queste magnanime  parole,  a far sicché ognuno calmasse lo sdegno, e l’ira fiera soffocasse.

Intanto era tremante D. Raffaele, vedendo il Capitano in s’imminente pericolo! Per cui non sapeva trovare il modo, e la maniera, come poterlo salvare.

Astretto finalmente dalla necessità, nonché del fraternal amore, come da disperato si slanciò fra quelli che lo circondavano, lo prese per la falda dell’uniforme, e con tutta forza lo tirò a sé, dicendogli:

«Fratello! Ritiriamoci! altrimenti saremo uccisi !…».

E così li sarebbe avvenuto quante volte si fossero di più trattenuti.

Vedeva intanto il Capitano la tristissima posizione, in cui infelicemente si trovava. Perciò non mancò di sentire il savio, e prudente consiglio datogli dal fratello. Tanto più che considerava non solo di aver adempito al proprio dovere ma di non potere fare altro, più di quello che operato avea. Per cui, cooperò ancor lui, di svincolarsi.

Non appena tanto gli è riuscito (certamente che ci ha dovuto concorrere un tiro della Divina Misericordia, non sapendo noi altrimenti darne la spiega) con tutta fretta e celerità discesero al Pizzo, che andaronsi  a chiudere ermeticamente in casa. Giusto perchè Trentacapilli temeva, non sapendo qual piega avesse potuto prendere lo affare. Tanto maggiormente, ch’ Egli ignorava perfettamente quello, che Pellegrino stava operando, relativamente contro il Re Murat.

Nell’atto che Trentacapilli finiva di operare nel modo come testè abbiamo cennato, D. Giorgio Pellegrino di unita a circa venti persone di tutto puntu armate, salivano per la strada che conduce al Telegrafo. Giunto a questo punto s’ inoltravano sul piano detto le Croci, da dove si avvidero che il Re Murat una col seguito s’ intrattenevano al suddetto giardino la Parriera.

Fu allora, o che Pellegrino lo avesse consigliato ai compagni, o pure questo lo fecero da loro stessi. Più della metà, pensarono attraversare il giardino del sig. Satriano di Briatico. Sapendo, che in testa ad esso dalla parte di Oriente, vi è un viottolo, che volendolo percorrere verso il Sud si sbuca nella via maestra, e che per essa si ascende a Monteleone.

Da questo punto volendo ritornare al Pizzo, dopo pochi passi si arriva ad una Chiesetta, sita allo ambito di detta via, che si venera sotto il titolo la Madonna della Pietà. E siccome dal punto dove il Re si fermava, non si può vedere la Chiesetta in parola.

Primo, perchè, essendo esso alla parte bassa del detto giardino la Parriera, livellandosi con quello, ove giace la Chiesetta istessa.

Per secondo, quel piccolo tronco di strada che dal principio del fondo la Parriera, mena alla Chiesetta medesima, forma un semicerchio.

E per terzo una folta siepe, che circuisce il giardino del Sig. Mannacio, sito visavì alla Parriera per l’intermedia via, impedisce quella, dal punto, ove il Re si fermava, vedersi la dietro posta Chiesetta. Ed ecco perchè i compagni di Pellegrino, che avevano fatto quel movimento, poteronsi inosservati agguatare dietro Essa, ed aspettare così il Re, che vi passasse, e massacrarlo.

Nel mentre che i compagni di Pellegrino prendevano una tal posizione, Egli con pochi altri procurarono giungere al punto così detto le pietre, che sono due macigni, giacenti visavì, ed in poca distanza dal luogo, ove il Re s’intratteneva.

Giunti, che vi furono, e perchè venivano da esse parati, fu allora, che Pellegrino si animò sparare un colpo di fucile al Re Murat. A questo i provocati praticavano altrettanto e cosi vicendevolmente.

Portate le cose ad un tal stato, facile che il Re avesse pensato uscire da quella svantaggiosa posizione, per essere non solo il luogo bastantemente angusto, ma prevedendo, che accrescendosi il numero dei nemici, potevano questi benissimo circondarli, ed in questo caso, avrebbero impedito loro di poter continuare il cammino, onde giungere in Monteleone, ma farli prigionieri ancora.

In questa nostra supposizione, facile che il Re avesse ordinato a quella porzione di soldati precederlo. Tanto vero che si mossero, forse per incamminarsi alla volta di Monteleone.

Usciti in sulla via, ed essendosi inoltrati pochi passi, venivano perciò ad essere in veduta da quelli appiattati dietro la ripetuta Chiesetta.

Vederli questi, e far fuoco sopra quelli, la veduta si confuse colla esecuzione.

A questo primo fatto, un soldato fu ferito da una palla nel ginocchio, che bastò tanto da farlo cadere per terra.

Intanto i soldati, non dimostrarono il benché minimo scoraggiamento, anzi stettero saldi al cimento, tanto vero, che corrisposero altrettanto sugl’impostati, attendendo nel pari tempo gli ordini per sapere qual movimento, o espediente eseguir dovevano.

Una tale da loro non aspettata opposizione, ha dovuto sinceramente non solo apportare sorpresa al Re, m’ancora agli uffiziali del seguito. Ed ancorché, non avessero mancato di coraggio per divenire allo assalto, onde aprirsi il passaggio, pure tanto non hanno creduto eseguire. Lo avrebbero sicuramente eseguito quante volte fossero stati certi da dover superare quel punto solo. Ma essendo che il Re ben conosceva la strada che dovea tracciare, onde arrivare a Monteleone, la quale non solamente, che per più miglia offre delle tortuosità, ma lateralmente ingombra da folte siepi. E giudicando con certezza, che dietro esse in più punti, vi doveva essere certamente altra gente impostata, ed in questo caso non solamente, che poteva benissimo offenderli, senza che loro se ne avessero potuto guardare, né nuocerli, attesa la natura  dei luoghi, ma più per la totale mancanza dei mezzi di difesa.

Per queste giuste, e ragionevoli considerazioni, hanno creduto essere della prudenza non dare lo assalto (giacché tanto dissero gli Uffiziali nel Castello) ma sventuratatamente si sono rotondamente ingannati! Perchè se avessero dato lo assalto, e superato quel punto, nessun’altra opposizione avrebbero incontrata lungo la strada.

Ma intanto cosa risolvere! mentre l’imponente circostanza, esigeva pronta ed energica risoluzione.

Ma cosa poter fare! In una si orribile posizione! nell’atto, che vedevansi da vivo, e sempre crescente fuoco di fucilate, da ogni punto accanitamente incalzati!

Ritornare al Pizzo?

Era questo lo stesso, che darsi volontariamente in preda de’ nemici, per essere barbaramente e senza pietà seviziosamente sacrificati?

Proseguire il cammino?

Questo li veniva impedito da una forza, che loro, credevano da non poter respingere, attesa non solo la natura dei luoghi, ma la totale mancanza dei mezzi di difesa.

Per cui l’unico espediente da prendere, era solamente quello, di attraversare la sottoposta collina, giungere al mare, trovare i loro legni, ed imbarcarsi. E cosi sottrarsi dalla furia del popolo. Non credendo loro giammai, che Barbarà, nell’avere inteso il primo colpo di fucile, di già era salpato, e fuggito, lasciandoli in balia di una furibonda gente, ond’essere barbaramente sacrificati.

«Qui bisogna fare apostrofe, giacché crediamo opportuno di portar giudizio, quali abbiano potuto essere i motivi, che indussero Barbarà di agire in un modo cosi vigliacco e inconsiderato!

Da prima, sembra, che andava egli trovando un’occasione qualunque per tradire il Re, forse per impadronirsi del tesoro, che sulle barche vi era?

«Ma noi perchè conosciamo i fatti che verificaronsi, non ammettiamo, che di tanta infamia, sia stato egli capace. Incliniamo piuttosto credere, che la sua intempestiva fuga, sia dipesa, o che lo abbia creduto massacrato, e se pur non questo, creduto certamente prigioniero in mano del popolo : per cui, a nostro giudizio, tenendo Barbarà verificata una di queste due nostre supposizioni, non era egli più al caso, dare al Re alcun soccorso. E siccome si trovava colle sue barche in poca distanza dal forte la Monacella, temeva perciò che da un momento all’altro, non si avesse a mettere esso in azione contro lui. Perché in questo caso non solo, che gli avrebbe impedito la sortita, ma poteva benissimo mettere a picco le sue barche, e cosi soffrire ancor lui la stessa barbara sorte del Re.

Ma per colmo di sventura del male arrivato Sovrano, Barbarà s’ingannò rotondamente.  Perchè, se avesse egli saputo, che il forte non era alla portata di offenderlo; in questo caso avrebbe atteso sicuramente, per osservare se le sue supposizioni verificate si fossero.  E cosi avrebbe salvato il Re, difendendogli la ritirata col cannone sulla spiaggia, senza che il forte avesse potuto fare operazione veruna, giacché le cose relativamente ad esso erano disposte nel seguente modo. «Vedendo taluni, che le avanti descritte due barche, a tutta fretta salpavano per fuggire. Subito corsero al forte per impedirle; ma che avvenne. La porta di entrata si trovò chiusa con chiavistello. Si domanda del Comandante, onde farla aprire, e nessuno sa di lui.

Si cercano per ogni dove i cannonieri, e non se ne rinviene uno.

Si fa premura pel Guardia di Artiglieria, per avere almeno le munizioni, e non si trova.

Ma come si son resi tutti ilice visibili?

Forse perchè temevano, non sapendo loro qual piega avesse potuto prendere lo affare. Stimavano perciò miglior partito quello, di non ingerirsi nè a prò né contro relativamente al Re Murat.

Verificati tali fatti, ragion vuole, che la totale loro scomparsa, sia stata, tutta opera del Capitano Devuox. Sul riflesso che, tenendo egli per sicuro, che Barbarà, non abbandonava il Re per qualunque evento, e non riuscendo questi allo scopo gli sarebbero restate le barche per ce ritirata, difendendogliele Barbarà col cannone sulla spiaggia , senza che il forte  avesse potuto operare contro le barche. Ma quantunque Devuox avesse in tal modo disposte le cose, pure questo suo antivedimento non ha potuto avere effetto.

Primo perchè Barbara nulla seppe.

E per secondo, Devuox non fidò con alcuno, onde farglielo sapere. Per cui la sollecita partenza di Barbara, non fu (a nostro giudizio) per aver voluto tradire il Re, ma facile che si sia appigliato ad una delle due nostre ultime supposizioni. E perchè temeva egli del forte, ha creduto  cosi per sua salvezza tanto prevenire.

Non appena il Re si decise di attraversare la sottoposta Collina, bisognò essere stato presente per avere la precisa, ed adeguata idea (perchè la parola non basta, onde farne concepire la benché approssimativa) del modo orribile, ed accanito come quella gente che sul luogo trovavasi, si scagliò per inseguirlo facendo incessantemente fuoco di fucilate su di lui.

Allo istante, da ogni punto della Città si osservava uscire gente armata, chi da fucile, chi da carabina, chi da pistola, sciabole, cangiarra, scure, stile, alcuni con lunghe pertiche, altri con nodosi bastoni, e finalmente molti non avendosi potuto al momento procurare un’arma qualunque, chi il crederla! tenevano sospeso fra le mani un sasso, per scagliarglielo addosso.

Ad una tale inferocita immensa turba, univansi una infinità di donne, che colle loro sediziose grida (come sono use queste del Pizzo, in ogni loro pubblica manifestazione) non solo che assordavano, ma avrebbero incusso timore all’uomo più intrepido, che sulla faccia della terra, trovato si fosse. Tanto vero ch’ ebbe a sbalordire (perché non di timore capace) il vincitore di cento e mille battaglie, ove un mezzo milione di guerrieri disputavansi aborrenti di sangue a palmo a palmo il terreno, e la vittoria,

Ma che si ha da fare! Giacché tanto si sperimenta in questo balordo, ed insensato popolo. Basta nella congiuntura uno, al quale prestano rispetto, e fiducia, ecciti loro al bene o al male — e datosi principio ad uno di essi, non vi é modo, né maniera come farli desistere. Perch’ é tal’e tanta la mania, e la inconsideratezza, per eseguire l’uno, o l’altro, che spesso per sì scioperatezza li tocca conseguentemente pagare a caro prezzo il pentimento.

Sorpreso per tanto, l’infelice e malarrivato Sovrano. Facile avesse creduto che non solamente il popolo del Pizzo , era quello che inveiva  contro   lui,   ma   che  l’intero mondo, si era qui radunato per massacrarlo. Ed ecco perchè maggiormente si affrettava, onde giungere presto le sue barche.

A questa precipitosa fuga, lo seguivano da presso ed a poca distanza il generale Franceschetti, ed il Capitano de’ Veliti Pernici. Dal perchè gli altri uffiziali, e soldati eransi dispersi fra le campagne.

Nel giungere loro alla metta della collina, e perchè gli ulivi finivano, perciò venivano ad essere in veduta dell’altra gente armata, che saliva per  raggiungerli.

Nell’ osservare costoro che il Re , e gli altri due suoi compagni, a tutta corsa dirigevansi alla marina, da vivo e sempre crescente fuoco d’archibugiate da ogni punto orribilmente incalzati – pensarono ritornare.

E’ perché conoscenti dei luoghi , cosi per strade più brevi , giunsero prima degl’ inseguiti al piano , che andaronsi ad impostare dietro alcune casette, vicino alle quali, l’infelice e perseguitato Sovrano passar doveva, onde giungere al mare.

Nell’atto che il più infelice dei Re, si precipitava dalla collina, facendo gran salti in giù teneva nella man destra un fazzoletto bianco, che   sventolava  giravolgendoselo alla persona, e alla sinistra il cappello, sembrava quello, essere come la Famosa Egida di Pallade, o preso l’avreste per l’invulnerabile Achille.

Altrimenti era un prodigio del Cielo essere preservato dalla morte, atteso gli incessanti, e sempre raddoppiati colpi di fucile che da ogni punto gli venivano sparati.

Non volendo noi dar credito alla tavola bisogna d’altronde convenire, che il Signore Iddio ad altra pena maggiore destinato lo aveva.

Giunto finalmente al piano, si veniva ad introdurre in un poderetto dei signori Melecrinis. E siccome esso era chiuso dalla parte che guarda il mare da un fossetto, lo impediva esso di passare liberamente sulla spiaggia ; per cui gli convenne saltarlo (ed ancorché a nostro credere) se n’ era avveduto che le sue barche di già erano partite, ha dovuto sicuramente osservare che presso al lido vi giaceva una piccola barchetta. Facile avess’ Egli designato col mezzo di essa di poterle raggiungere, perchè non ancora eransi di molto allontanate.

Intanto gl’impostati dietro le cennate casette stavansi coi fucili inarcati, attendendo così  l’istante che l’infelice perseguitato Sovrano, fosse in sulla spiaggia passato, e massagrarlo !

Saltato ch’ebbe il fossetto, si pose a correre verso il mare, onde arrivare il battello.

Ai primi passi, veniva a calpestare su di una rete, che i nostri marinari pescatori sin dalla mattina avevano distesa in sull’arena ad oggetto di sciorinarla. Punto in cui, il più sventurato dei Sovrani veniva ad essere in veduta degl’ impostati, dietro le ripetute casette.

Nel passare sovra essa, si venne naturalmente ad imbrogliare, tanto più che agli stivali portava gli speroni. Bastò tanto da farlo cadere tramazzone colla faccia per terra. Il cader di lui e sparargli tutti gl’impostati, fu un solo istante. Causa per cui ognuno abbiamo creduto, essere stata la caduta quella della morte! E se tanto non si è verificato, ha dovuto certamente influire la caduta istessa. Ma oh portento! allo istante si alza, si svincola dalla rete, corre verso il lido, arriva al battello , con ambo le mani lo afferra, e cerca con tutta forza gittarlo in mare, ma non può ad onta, che vi mette tutto il suo potere. Nel mentre che l’infelice e mal capitato Sovrano disperatamente si sforzava, onde rimuoverlo, vi giungevano il generale Franceschetti, ed il Capitano Pernici, ed ambi si adattano per vararlo. Ma invano le loro forze vi aggiungono, giacche il battello a causa del primo urto ricevuto, si era nella arena ingagliato. Nell’atto che a tutta forza affaticavansi, han dovuto sicuramente considerare, che se pure avessero riuscito vararlo avrebbero mancato di remi. E siccome poco discosto ve n’erano molti, i quali servivano a formare una specie di telaio, su di cui i nostri marinari pescatori sogliono appendere le reti per asciuttarle. Infatti vi corsero, ne strapparono due, che portarono sul battello, e quindi di nuovo, e con maggior impeto s’impegnavano portarlo al mare. Ma sempre vani i loro sforzi tornavano.

Finalmente (a nostro credere) il disaggio sofferto, per la somma delle forze impegnate fece sì da farli perdere la lena.

— Tanto vero, che furono costretti desistere, per cui spossati, ed anelanti adagiaronsi sul battello, facile col riposo, avessero potuto rinfrancare le abbattute forze.

Intanto una immensità di popolo era accorsa sul luogo, e di momento in momento accrescevasi il numero, allungandosi per la spiaggia ad oggetto di circondarli. E qualcheduno più coraggioso cercava destramente accostarsi al battello.

Vedendo loro che i nemici volevano ad ogni modo assalirli, stimarono perciò opportuno sparare verso la folla un colpo di pistola, onde cosi farla allontanare.

Ma che avvenne! Attesa l’immensa calca, la palla doveva certamente ferire. E col fatto colpi lievemente all’orecchio al più audace fra i marinari, da noi per uopo chiamato Mommo. Bastò tanto da far crescere l’onta, ed un vivo fuoco di archibugiate si rianimò sopra loro.

Tra esse restò vittima il Capitano Pernici essendo stato colpito da due palle alla testa!

La morte di costui dispiacque visibilmente al Re, facile che l’abbia intesa foriera d’irreparabile sventura. Tanto vero che cessò di più operare si per lo scampo, che per la difesa.

Intanto il popolo, non cessava di accorrere sul luogo, e di già si era reso formidabile tanto più che si affollava  in un sol punto.

Intanto era meraviglioso da una parte, ma meritava la beffa da un’altra. Osservando quell’ immensa turba (divenuta già frenetica) in un momento, animosa spingersi avanti per assalirli. A questo una mossa qualunque del Re, non solo che bastava farla fermare, ma ritornare più indietro, da dove erasi partita. Per tali, andate e ritorni, sembrava un tempestoso mare, allorquando coi suoi orrendi cavalloni si avanza verso la spiaggia, sembra allora di voler tutto rovesciare e sommergere. Ma ad onta però di tanta gagliardia, giunti ad un dato punto, sono costretti arrestarsi, perchè da una forza accorsa, impediti, che l’impone non più di qua.

Nel mentre la innumerevole turba stava in una si smaniosa attitudine; un calafato a nome Giorgio Grillo, si animò accostarsi al battello.

In sulle prime stavasi irresoluto, perchè non aveva il coraggio stendere le mani sopra il Re. Essendo più che sicuro che quantunque l’infelice e mal capitato Sovrano, si trovava nella più trista posizione, certamente, che non avrebbe tollerato il benché minimo atto indecoroso. Vedendo alla fin fine il più sventurato dei Re, che nulla più gli restava a fare, perciò ha creduto prudenza scendere dal battello, e darsi volontariamente nelle mani di Grillo, dicendogli:

« E ben ? Io mi dono a voi ! E voglio credere, che non mi si faccino delle villanie ! »

Oh Dio ! non è della nostra penna il descrivere onde portare al cuore di chi legge la presente storica memoria, il modo barbaro, ed accanito come quella immensa ed inferocita turba, si avventò per afferrare il malcapitato Sovrano, appena si avvide che di già si era reso, e nulla più si avea a temer di lui.

Allo istante gli piombarono sopra. E non appena lo ebbero fra le mani, con nostro sommo raccapriccio abbiamo avuto ad osservare, che la maggior ferocia, e gli atti più brutali, esercitavansi dai più vili.

Tanto è naturale a costoro perchè volendo dimostrare bravura (però quando è cessato ogni pericolo) credendo cosi coprire la timidezza avuta nell’atto del cimento. E col fatto, ciascheduno di essi, pretendeva di far conoscere, essere stato lui il primo catturante. Motivo per cui, ognuno di questi tali s’impegnava a tutta possa , strapparlo dalle mani dell’altro. Ed in una si tremenda, ed accanita popolazione, lo avrebbero sicuramente ridotto a brani, se opportunamente non avesse accorso Pn.e Pasquale Greco (uomo valido di forze, ed influentissimo su la popolazione) il quale or colle buone, ed or collo sdegno, alla fin fine dopo circa una ora di non pochi stenti, giunse a strapparlo dalle cento e mille mani, che per farle cedere, dovea ognuna da scure essere tagliata.

Vedeva intanto lo sventurato e malcapitato Sovrano, il potere di un tale uomo, e benché nella di lui vita, non ha dimostrato mai di temere la morte, pure come da uomo che mai perde l’amore a quella. E perchè si vedeva privo di ogni altro soccorso umano, accerchiato e pesto da innumerevole turba d’inferociti nemici. Sdegnava perciò finire in un modo cosi vigliacco e sevizioso i giorni suoi. Tanto vero, che cooperava ancor lui di svincolarsi, onde gittarsi nelle braccia di Greco pregandolo, di non permettere , che fosse cosi barbaramente sagrificato!

Commosso giustamente Greco, dello stato veramente miserevole, in cui era   stato ridotto, il più sventurato dei Sovrani, che era quello da destare compassione all’uomo più crudele che sulla faccia della terra trovato si fosse. Tanto più, che considerava Greco, che l’uomo talmente malmenato, ed oppresso, era quell’istesso, che visto aveva al Potere, ove milioni di uomini di ogni notabilità, al minimo suo cenno, riverenti si prostravano per ubbidirlo.

Per si giuste ed umanitarie considerazioni, spiegava Greco tutto l’impegno con quel coraggio, che è proprio di colui, che si commuove, allorquando osserva l’eccessiva, ed immeritata oppressione del simile.

Riuscito finalmente Greco di sottrarlo dalle tenacissime mani di si barbari manigoldi, lo assicurava di nulla più temere, mentr’era di lui cura condurlo in luogo sicuro.

L’aspetto del Re, era proprio quello dell’uomo veramente costernato, e giunto allo apogeo della disperazione! Pallido il volto, simile a colui, che da veramente ed intenza Itterizia è assalito. Rabbuffati, e disacconci i capelli, ed una addensita saliva ai laterali della bocca, che spesso apriva per affanno, pronunziando: Oh che giornata infausta !

In  uno stato si orrendemente seviziato, veniva preceduto, circondato, e seguito da innumerevole e sempre crescente folla di popolo. Ed intanto ch’il crederà! Ad onta, ch’era stato ridotto in uno stato si deplorabile. Con orrore abbiamo consideralo; sin dove può giungere non solo la vilezza ma l’umana crudeltà ancora. Vi sono stati taluni che non essendosi potuto trovare al principio delle avanti narrate cose , onde avessero potuto esercitare ancor loro, le sopra descrìtte crudeltà, così pieni di rabia, s’ impegnavano a tutta forza , di penetrare nella calca, acciò avessero potuto ancor loro praticare gli atti della più schifosa viltà. Ma perchè impediti, nel massimo corrivo, gli contraccambiavano invece le più ignominiose e denigranti parolacce ! Finalmente in un si orribile atteggiamento, la trionfante turba conduceva l’infelice prigioniero Sovrano (fra l’encomiose grida di Viva il Re Ferdinando) giungeva sul piano, che immette al Castello. E siccome visavì abita l’Agente dell’ Eccellentìssimo Duca dello Infantado, a nome di Francesco Alcalà.

Non ignorava questi, che in quella immensa folla, vi era prigioniero il Re Murat; subito accorse sul luogo, ma intanto non avrebbe potuto certamente penetrare nella calca, onde presentarsi al Re, se il pubblico non avesse avuto pel sig. Alcali dei positivi riguardi. E ad onta di questo, dopo non pochi stenti, finalmente vi giunse.

Nel presentarsi all’ infelice prigioniero Sovrano, procurò con affabili maniere, ed affettuose parole, di poterlo in qualche modo consolare. Offrendosi nel contempo a tutto quello, che poteagli bisognare, dichiarando altresì il nome, la patria e la carica.

Per si umanitarie pratiche (effetto per altro di naturale filantropia del sig. Alcali) l’uomo che in sua vita ha provata la sventura, può solamente considerare, come le ha potuto accogliere e gradire, e quale sollievo e conforto apportavano nell’anima veramente esacerbata dello infelice e seviziato Sovrano. Ha potuto almeno in qualche modo alleviare il suo infortunio, considerando che fra uno esterminato numero di furibondi nemici, si trovava oramai uno, che di lui compassione sentiva.

Esatto quindi alla parola il sig. Alcalà, ordinò fossero subito assegnate le stanze, ove il Re far dovea dimora, ed addobbarle alla meglio.

Intanto osservava che il Re, non solamente era divenuto sporco negli abiti, ma ancora indecentemente lacero.

Subito fece chiamare i migliori sarti del paese, ordinando loro, che gliene avessero operati, quanti nella congiuntura gliene poteano bisognare.

Finalmente il Re stava rinserrato in Castello: ed al popolo nulla più restava a fare su di lui. Terminata questa prima tragica parte, bisognava dar piglio alla seconda, non meno compassionevole; cioè di assicurare in carcere anche le persone del seguito. E siccome in si originali avvenimenti, mai vi mancavano di quei tali soggetti, che diconsi zelanti, e che pretendono a preferenza degli altri, di esser distinti con qualche loro particolar bravura, onde apparir cosi maggiormente fedeli, ed abnegati al Sovrano trionfante.

Intatti un buon numero di costoro gridarono:

«Si arrestino i seguaci!»

Allo istante un centinaio fecero eco allo eroico invito, e subito partirono, dirigendosi verso quei luoghi, ove più facile giudicavano di poter essere quelli vaganti.

Giunti fra quelle campagne, e dopo una accurata ricerca nei punti più sospetti, chi il crederia!

Alcuni si trovavano accovacciati in una folta siepe, altri appiattati in uno burrone, qualcheduno tuffato in uno stagno, tenendo fuori dell’acqua la sola testa, e finalmente molti erravano nelle campagna, senza saper dove.

Raccolti, facevano veramente pietà, osservandoli com’eransi ridotti. Alcuni quasi all’ ignuda! Altri senza uniforme. Facile lo avevano gittato a fine di non essere riconosciuti. E finalmente molti lo avevano talmente lacero da non dar segno di militar divisa.

Un quadro cosi commovente, a prescindere, che inteneriva, destava nel contempo sorpresa, ed ammirazione financo a coloro che li conducevano, nel sentirli nel loro sbalordimento esclamare:

« Dov’ è il mio Re ? Ah ! non l’uccidete ! Uccidete me ! » « E cosi tutti, »

Nel modo cosi avviliti, e mal ridotti, furono tradotti nel castello medesimo, e rinserrati in altre stanze, poco discoste da quelle ove il Re dimorava.

Mentre qui si eseguiva l’avanti   narrata  tragica scena, la notizia giungeva in Tropea, luogo di residenza del Generale Nunziante. (Vito Nunziante, allora Comandante territoriale, la 5 Divisione Militare in Calabria).

Si può ben considerare, quale sia  stata   la sua sorpresa, ed in quale costernazione   lo ha messo, nuova cosi originale!   E   quantunque stentava crederlo,   pure   l’eclatanza dello affare, esigeva pronta e   sollecita occorrenza.  Così senza esitare un solo istante, si pose in viaggio.    Ma   siccome   l’arrivo qui, non si potè verificare che a notte avanzata, per cui gli convenne nella massima impazienza aspettare che  venisse il giorno. Albando cielo,  subito  il Generale si recò al  Castello, ove si  ebbe  di tutto   a   sincerare — ma pur tutto ciò convenienza esigeva di   attendere   finche    l’infelice prigioniero Sovrano, si fosse alzato da letto.

Fu allora che il Generale si fece annunziare.

Appena seppe il Re, che il Generale Nunziante, desiderava parlargli, ordinò che tosse entrato.

Sono veramente sempre degne di lodi, le maniere ossequiose e subordinate, come il Generale sapeva   condursi   alla   presenza del Re Murat. Non obliando di esercitare quegli atti, a Dignità Reale dovuti, protestandogli altresì, che  l’ oggetto che si era a lui presentato, altro non era stato, che solo quello di voler dipendere degli ordini suoi, relativamente a tutto quello, che poteagli bisognare. Onde ubbidire così a quelli, del proprio Sovrano.

Accoglieva il Re con quella contegnosa garbatezza, che gli era naturale, i generosi uffizi del Generale, nulla badando allo stato in cui miseramente si trovava. E fu perciò, che nella compiacenza, accennò al Generale il piacere far caso di Lui nell’occorrenza — soggiungendo però, essere contentissimo delle affabili, ed amorevoli dimostrazioni ricevute dal sig. Alcalà.

Circa il racconto di questi fatti, assicuriamo riferire perfettamente quello, che abbiamo appreso dalle persone, che trovaronsi presenti.

Terminate tali politiche convenienze, prese commiato il Generale per disporre l’occorrente, quante volte il prigioniero Sovrano avesse avuto bisogno di cosa.

Infatti siamo stati assicurati, che non appena il Re dimostrava di avere il benché minimo bisogno o desiderio, tanto dal Gènerale che dal sig. Alcalà venivano a puntino soddisfatti.

È naturale all’uomo riempirsi di compiacenza, allorché si vede praticar del bene, mentre si attenderebbe tutto di male. Tantovero che nel vedersi presentare una collezione di abiti, elegantemente adoperati, trasparve al volto del Re, una ben marcata piacevolezza, che ben dimostravano quanto gli erano a cuore. Tanto più, che vi era non solo totalmente mancante, ma quelli che indossava erano oltremodo indecenti, perchè sporchi, ed al maggior segno laceri. Per cui, senza esitare un solo istante, scelse un soprabito color blu, elegantemente guarnito a mò di recamo di trenetta nera in seta. Un calzone dello stesso colore, similmente guarnito, non solo al lato delle cosce, m’ancora al davanti. Un corpettino di casimirra color’ perla. Una cravatta scura, ed un piche amaranto, adorno di laccetti d’oro e a  largo gallone al giro.

Quindi si ritirò nell’altra stanza, e dopo aver compito la toletta, cosi bene vestito sorti, per tarsi vedere, pogiandosi sul davanzale della finestra, e propriamente a quella che guarda alla piazza.  

Se ha tanto ha eseguito, facile (a nostro giudizio) erasi persuaso, che non cosi presto ed in quel modo, finir dovea i giorni suoi !

Non appena fu visto allo indicato luogo, e cosi bene abbigliato, allo istante una folla di gente di qualunque classe, accorse alle mura dello Spuntone, i quali non distano dai castello, che circa trenta palmi, per lo intermedio fossato. Un tal procedere lo praticò più volte nel corso della giornata, e così per tutte le altre consecutive, e qualche volta si avanzava fin sul piano della Torretta e propria a quella visavì alla piazza.

Bastò tanto al popolazzo di osservare, onde far sì, che non pochi s’intrattenessero ai suddetti mura dello spuntone. E specialmente nelle ore serotine si accresceva il numero, perchè il Re più alla lunga vi dimorava.

Non diversamente si osserva in questo balordo, ed ignorante popolo, il quale macchinalmente esercita le sue operazioni di pubblicità. Ed abbench’esse tiranniche, si conforta quindi, come se nulla avesse fatto, per non sapere nella congiuntura distinguerle, né valutarle. Causa per cui la frequenza di vedere il Re, e le maniere affabili, come Egli sapeva verso tutti corrispondere. Non solamente, che si era spento l’odio, (se pur aveano avuto) ma invece si principiava ad amarlo. Tantovero, che taluni il riverivano, e con alcuni scambiavansi parole non indifferenti.

Chi sa il tempo cosa avesse tatto.

 

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