Argomentare ancora oggi sui resti mortali di una persona morta da oltre due secoli, anche se trattasi di un Re di Napoli, potrebbe ingenerare nel lettore una qualche perplessità nel senso di chiedersi se dedicare un poco del proprio tempo in simili letture non sia o meno una perdita di tempo. Se, però, dietro il fatto di per se banale della morte, si cela una tragica vicenda umana e famigliare frammista di grandi glorie ed onori sui campi di battaglia di tre continenti (europeo, asiatico con il medio oriente ed africano), immense ricchezze accompagnate dalla regalità e dalle umili origini del personaggio allora forse si vale proprio la pena soffermarsi in questa lettura. Negli anni a cavallo tra il XVIII e XIX secolo la Storia umana cambio in seguito alla Rivoluzione Francese. L’affermazione dei principi di Liberté, Égalité, Fraternité (in italiano Libertà, Uguaglianza, Fratellanza) cambio in modo definitivo il corso della Storia dell’Umanità intera. Il cambio non è stato indolore ma è costato milioni di morti sui campi di battaglia di mezzo mondo. La loro diffusione, oltre che nelle coscienze delle menti più elette e sensibili, è avvenuta tra i popoli nelle punte dei vessilli della Grande Armata. E non c’è dubbio che Gioacchino Murat fu tra i principali artefici di questa diffusione conducendo vittoriosamente le sterminate masse della cavalleria della Grande Armata contro gli oppositori di ogni tipo. Figlio di Albergatore, seminarista, soldato, ufficiale, generale, ammiraglio, duca, governatore di Parigi, Maresciallo di Francia, Comandante Generale della Grande Armata in sostituzione di Napoleone ed infine re di Napoli. Dalle “stalle alle stelle” per poi finire di nuovo nelle stalle con la fucilazione come un comune malfattore di Pizzo il 13 ottobre del 1815.

E’ notte fonda quando si aprono le porte del Castello Aragonese di Pizzo ed un mesto corteo esce. Esso è composto da 4 portatori del feretro, di professione “vastasi”, contenente il corpo del re, e da un reparto delle Guardia Reale, reparto normalmente di stanza a Messina, appositamente chiamata a Pizzo d Re Ferdinando per la fucilazione del Re Gioacchino. La luna splende con la sua luce  bianca in cielo, delle torce vengono accese ed il mesto corteo s’inoltra nella breve stradina che conduce alla Chiesa di San Giorgio Martire. Il feretro costituito da una cassa di tavole come normalmente usate per le sepolture, ancora oggi ritrovate all’interno della cripta di tumulazione collocata all’interno delle Chiesa di San Giorgio in ottimo stato di conservazione, è tutto impregnato del sangue del Re Gioacchino fuoriuscite dalle perforazioni causate dai proiettili di piombo sparati dai fucili del plotone di esecuzione. Feretro avvolto, dicono le testimonianze, con un panno di tessuto nero (taffetà) proprio per attutire questo tipo di problematica. Il corteo, per non dare nell’occhio, entra dalla porticina lato mare della Chiesa, è procede alla sepoltura del feretro. Fin qui le testimonianze scritte lasciate dai testimoni oculari dell’epoca. Senonché all’interno della Chiesa esistono più fosse di tumulazione, per l’esattezza 10 delle quali 9 riservate ad uso privato e solo una ad uso pubblico. Quest’ultima si trova al centro della Chiesa ha forma rettangolare ed è contrassegnata da tre botole di accesso superiori mentre all’interno è un unico grande parallelepipedo lungo circa 10 metri, largo circa 5 metri ed altro circa 6 metri. Purtroppo né dalle relazioni dei testimoni oculari ne dai documenti ufficiali e cioè atto di morte del Comune ed Annotazione sul Libro dei Morti della Parrocchia risulta in quale di queste fosse di tumulazione sia stato “gettato” il feretro con il corpo del Re. Di fatto il buon senso e la tradizione popolare da sempre hanno parlato della terza botola della fossa comune.

Quanto sopra, però, non è stato un semplice fatto privato della famiglia Murat da dimenticare al più presto, ma un fatto storico di rilevanza europea che ha colpito profondamente le Società del tempo e la cui memoria non è un dato facile da cancellare. Passato il periodo imperiale, passato il Regno dei Borbone, nella nuova realtà politica dell’Italia Unita la famiglia Murat incominciò a pensare al recupero di quei poveri resti mortali per riunificarli nel Cimitero Monumentale di Bologna in una grande e magnifica tomba fatta scolpire dal Vela, dove avrebbero essere riuniti ai resti mortali della Regina Carolina sepolta in una Cappelle della Chiesa di Ognissanti di Firenze. A Pizzo nel frattempo gli animi più eletti e sensibili della popolazione non dimenticarono re Gioacchino anzi facendosi interpreti dei valori pregnanti dell’Illuminismo Francese e Giacobino per essi combatterono e morirono contro la tirannia borbonica fino alla vittoria garibaldina, alla quale Pizzo contribuì con presenze molto qualificate, tra tutte il Senatore del Regno d’Italia Benedetto Musolino. Altri Pizzitani, raggiunta la Unità Nazionale, incominciarono a porsi il problema del recupero dei resti mortali del Re. Tra tutti l’Onorevole Giorgio CURCIO fece di questo obiettivo uno dei più pregnanti della sua vita. Scrisse un libro, oggi introvabile, “Su la tomba del re Gioacchino”, fece acquisire al Comune di Pizzo la proprietà del Castello Aragonese, costruì e mantenne contatti con la Famiglia Murat con l’unico scopo di individuare i resti mortali del re e dargli degna sepoltura. Nel 1893 scoccò l’ora e vennero a Pizzo i Murat alla ricerca del corpo del re. Ed a questo punto cedo la parola ai magnifici articoli scritti dal De Cesare per raccontare quegli avvenimenti.  

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