Due “Bastasi “ per l’atto di morte

di Sharo Gambino

Per il borbonico generale Vito Nunziante, avversario irriducibile dei liberali (nominato colonnello dal cardinale Ruffo per lo zelo con cui nel 1799 aveva organizzato ‘le bande armate contro la Repub­blica Partenopea), Gioacchino Mu­taI era meno che nessuno. Lo di­sprezzava e lo teneva in conto di un avventuriero cui era riuscito, per un breve periodo e grazie a quell’altro «‘brigante» del cognato Napoleone, di usurpare il trono di Napoli a Ferdinando IV. Allorché la sera dell’esecuzione della sen­tenza (emessa dal tribunale mili­tare da lui presieduto) gli fu con­segnata — perché v’i apponesse il «visto per l’inoltro» — la lettera che ‘l’ex re aveva scritto alla mo­glie Carolina Bonaparte su un fo­glio del registro della gendarmeria del castello di Pizzo, egli, stizzi­to, cancellò dall’indirizzo il titolo di « regina ».

Quel graffio e la firma sotto il visto, in rosso, erano stati gli ul­timi atti di una vicenda destinata alla storia, ma che per lui si era fermata là, al processo sommario ed alla fucilazione. E così, forse per rimarcare il suo disprezzo per colui che ormai altro non era che un cadavere sforacchiato dal­le pallottole del plotone d’esecu­zione, egli lasciò che — come per un « lazzarone » qualsiasi — fos­sero due « bastasi », due facchini analfabeti, a denunciarne e testi­moniarne la morte. Più pietà per « re Gioacchino » ebbe il popolo, che travestì di leggenda quella mor­te ed un poeta dialettale scono sciuto, alla maniera dei cantastorie, la tradusse in versi commossi seguendo più il sentimento che la storia.

Figlio dei locandiere Pietro Mu­rat-Jardy, Gioacchino nacque il 25 marzo 1767 a Labastide-Fortuniè­re (oggi Labastide-Murat) ove il padre sovrintendeva fra l’altro ai beni del Talleyrand. Volendo av­viare il figlio alla carriera eccle­siastica, Pietro ‘Murat lo inviò dapprima al collegio di Cahors e quin­di al seminario di Tolosa. Dotato di facile parola e bravo nello scri­vere, il ragazzo compì buoni stu­di, ma non li completò perché, in­namoratosi d’una fanciulla, dopo essersi ‘battuto a ‘duello per lei, rimasto senza mezzi finanziari, non trovò di meglio che ‘arruolarsi vo­lontario nel reggimento dei Caccia­tori delle Ardenne.

Ammiratore e seguace — ma per breve tempo — di Robespier­re, il 13 vendemmiaio dell’anno IV Murat si schierò accanto a Bar­ras e Bonaparte. Con azione teme­raria, quel giorno — il più impor­tante e decisivo della sua vita —egli s’impossessò di una quaranti­na di cannoni imponendosi all’at­tenzione di Napoleone che lo volle con sé come generale di brigata (2 febbraio 1796) e poi, durante la campagna d’Italia, come aiutante di campo. Diventato fedelissimo strumento del grande Corso, lo seguirà ovunque. Dopo la campa­gna d’Egitto in cui si guadagna i gradi di generale di divisione, il 18 brumaio, alla testa di un pu­gno di granatieri, Murat s’impone al Consiglio dei, Cinquecento do­mando quell’assemblea e spianando così l’a strada al consolato di Bo­naparte che gli affida il comando della guardia consolare e gli fa sposare la sorella Carolina.

Quel matrimonio lo lega ancor più a Napoleone con il quale il figlio del locandiere di Labastide-Fortu­nière combatterà la lunga serie di guerre europee coprendosi di glo­ria militare, a cominciare da Ma­rengo. La sua è una inarrestabile ascesa: comanda la cavalleria del­la riserva, è a capo dell’esercito del Mezzogiorno, guida le truppe della Repubblica Italiana, costrin­ge alla pace di Firenze re Ferdi­nando, conquista l’Isola d’Elba. In Francia Napoleone gli affida il Go­vernatorato di Parigi ed egli non gli nega il suo aiuto allorché, nel marzo 1804, fa arrestare ed ucci­dere il duca d’Enghien. Gli resterà l’ignominia di quell’infame azione, la più esecranda commessa da Na­poleone per la conquista e la dife­sa del trono.

Nelle successive campagne Mu­rat continua a combattere con il consueto coraggio, tanto da desta­re l’ammirazione di Napoleone che dopo Austerlitz lo nomina mare­sciallo dell’Impero e successivamen­te gli assegna due ducati tedeschi, dopo averlo creato principe im­periale e grande ammiraglio. In­viato in Spagna come luogotenen­te generale, nel 1808 Murat re­prime l’a rivolta di Madrid e viene quindi chiamato dall’Imperatore a sostituire sul trono di Napoli il cognato Giuseppe Bonaparte desti­nato a sua volta alla corona spa­gnola.

Lontano da Napoleone che con­duceva una politica accentratrice e considerava vassalli tutti gli sta­ti, Murat poté godere di una cer­ta indipendenza. Cercò di mutare almeno in parte lo stato politico. sociale del suo regno: emanò leg­gi antifeudali, quotizzò le terre, sconfisse ‘il ‘brigantaggio politico fo­mentato dal Borbone chiuso in Pa­lermo, introdusse I codici napoleo­nici, promosse lavori pubblici, chiu­se i conventi ed abolì i privilegi ec­clesiastici, dette incremento alla pubblica istruzione e alla cultura… Insomma — ed il Colletta fu uno dei primi a riconoscerlo — fu so­vrano illuminato e progressista, al­meno nei limiti concessi dalla po­litica di conquista napoleonica.

Anche nella campagna di Russia, Murat seppe battersi con ardimen­to: ma già avviava una politica se­parata con Austria e Inghilterra, mentre gli italiani cominciavano a guardare a lui come all’uomo ca­pace di realizzare le speranze di indipendenza nazionale. E allor­ché Napoleone fuggì dall’Elba, Mu­rat emanò da Rimini il famoso proclama agli italiani invitandoli a seguirlo nella lotta per l’indipen­denza. Dopo aver battuto gli au­strisci sul Panaro, fu da questi sconfitto a Tolentino. Vano il suo gesto di promulgare a Pescara la costituzione liberale attesa dagli  

Italiani. I suoi generali avevano già statuito la restaurazione  borbonica nel regno di Napoli.

Murat riparò così in Corsica e, quando gli giunsero dalla Cala­bria notizie di insofferenza per il ritorno del Borbone, partì alla vol­ta della nostra regione fiducioso nell’aiuto delle popolazioni e dei Carbonari. Sbarcò a Pizzo, ma su­bito ebbe sentore di quanto stava per accadergli allorchéé l’ex ser­gente Tavella, da lui invitato, si ri­fiutò di gridare « Viva Gioacchi­no ». Sperò allora di trovare mi­gliore accoglienza nella vicina Monteleone dove, di ritorno nel 1810 dall’infelice spedizione in Sicilia contro i borboni, era stato re­galmente accolto. Già era, col suo piccolo seguito, sulla via di quel­la città, quando lo raggiunse il capitano della gendarmeria di Piz­zo, Trentacapilli.

Dopo aver inutilmente tentato di conquistare alla sua causa l’uf­ficiale, Murat cercò di salvarsi con la fuga tornando verso la costa dove aveva lasciato il battello che dalla nave lo aveva trasportato a terra. Ma non ‘trovò il natante (fa­talità volle che nella attesa i ma­rinai si fossero avviati verso la lo­calità « Prangi »), per cui dovette arrendersi al Trentacapilii, il qua­le lo chiuse nel Castello e avvertì telegraficamente il generale Nun­ziante. Erano le ore 9 dell’ 8 ot­tobre.

Si riunì ‘la commissione milita­re per celebrare una ‘farsa di pro­cesso, perché già Ferdinando IV aveva stabilito quale doveva essere la sentenza. Dopo la lettura della condanna a morte da eseguirsi subito e sul posto, venne concesso al prigioniero di scrivere per l’ul­tima volta alla moglie ed ai figli.

Lo fucilarono qualche minuto più tardi, a due passi dalla cella. Egli rifiutò la benda sugli occhi e pregò il plotone di mirare al pet­to, risparmiandogli il volto. Poi, dopo che due « bastasi » ne ebbero denunciato al sindaco la morte, il suo corpo fu gettato nella fossa comune della chiesa di San Giorgio.

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